[LA STORIA IN CONTROLUCE]

Non tutto è come appare.

Quando Stalin censurava Lenin

Vladimir_Lenin_and_Joseph_Stalin,_1919

Non si separava mai dalla sua matita blu. Gliel’avevano vista in mano Churchill, mentre si spartivano l’Europa postbellica, e Zhukov quando studiavano la mappa della Stalingrado assediata. Il suo tracciato grasso ed energico era ancora visibile quando, più di 50 anni dopo la firma, i russi ammisero l’esistenza dei protocolli segreti del patto Molotov-Ribbentrop, con i quali Mosca e Berlino si divisero l’Europa, e tirarono fuori dagli archivi segreti le carte geografiche dell’accordo: un bel tratto deciso che tranciava la Polonia. Iosif Stalin si era abituato a portarsi dietro la matita blu quando si chiamava ancora Dzhugashvili ed era redattore della Pravda, in un’epoca in cui le bozze venivano fotografate prima di venire mandate in stampa, e le correzioni in blu erano invisibili nella foto. Ed era un editor spietato: aveva respinto al mittente ben 47 articoli di Lenin, che ammirava profondamente le qualità giornalistiche del suo pupillo. Che, anni dopo, avrebbe fornito al leader malato e confinato nella sua villa di campagna apposite copie della Pravda stampate solo per lui, in modo da tenerlo all’oscuro di quello che stava accadendo. Molti dittatori avevano avuto come primo mestiere quello del giornalista, e Stalin aveva imparato il grande segreto delle redazioni: colui che edita e corregge ha più potere di chi scrive. Schiere di storici hanno studiato gli appunti e le correzioni di cui il Baffone disseminava ogni pezzo di carta che gli capitava tra le mani, dai libri della sua biblioteca ai documenti del partito, alle bozze dei giornali. E sono rimasti intrigati: dallo studio delle correzioni con la matita blu emerge un personaggio molto diverso da quello che ci si potrebbe immaginare, caustico, razionale, sobrio. Depennava i passaggi ridondanti e ideologici, cancellava le sviolinate adulatorie dedicate a lui, prendeva in giro con degli “Ah-ah” ai margini roboanti affermazioni retoriche, odiava gli aggettivi altisonanti. E correggeva, editava, appuntava maniacalmente tutto: le bozze delle risoluzioni del Politburò come le vignette che i suoi compagni si passavano durante le interminabili riunioni, articoli di giornale e relazioni di scienziati (di qualunque disciplina), accordi internazionali e liste dei condannati.  La matita blu, scrive Holly Case, professoressa alla Cornell University, in un bellissimo saggio dedicato allo Stalin-editor (The Chronicle Review), era la sua arma segreta, con la quale forgiava la cronaca, la storia e infine il mito. Prolifico scrittore oltre che censore supremo, non era però un patito della firma, e la sua opera più importante, il “Breve corso della storia del partito comunista dei bolscevichi”, la Bibbia dello stalinismo, non l’ha firmato. Ossessionato dal voler fornire la versione perfetta e definitiva di un testo, aveva voluto che venisse studiato da tutti i sovietici, non attraverso mediatori dell’esercito dei propagandisti-sacerdoti, ma di persona, in una sorta di protestantesimo comunista dove il testo era la principale se non unica fonte di fede. Una versione critica del “Breve corso” con tutte le correzioni che mostrano l’evoluzione del pensiero di Stalin – perché per un editor ossessivo in un testo resta sempre qualcosa da correggere ancora e ancora – sta per venire pubblicata dalla Yale University, e promette nuove rivelazioni. Del resto, in un Paese dove per un refuso nei testi ufficiali si poteva finire nel Gulag (come nella scena dello “Specchio” di Tarkovsky dove la protagonista, correttrice di bozze, scampa per miracolo l’errore) il capo supremo non poteva che essere un redattore armato di matita.

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This entry was posted on 14 February 2014 by in stalin e lenin.

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